Quando a gennaio sono arrivata a Mulhouse, in Francia, per iniziare il mio volontariato europeo, non potevo immaginare che dopo solo due mesi il mio progetto sarebbe stato stravolto da una pandemia. Venuta qui per promuovere l’inglese e aiutare nell’ambito dell’animazione in un centro di riabilitazione, a inizio marzo mi sono ritrovata a dare lezioni d’inglese online e a far parte del team di animatori creato per offrire un servizio di baby-sitting rivolto ai figli degli impiegati del centro che non potevano lavorare da casa, quali infermiere e assistenti sanitari.
Nonostante qui i primi casi di coronavirus si fossero presentati già a fine gennaio, mi è sembrato che il cambiamento sia stato repentino, come se il virus fosse arrivato un giorno di fine febbraio e avesse cambiato tutto. Allora, tornata dall’Occitania dove avevo partecipato al seminario di inizio volontariato con altri trenta ragazzi venuti da tutto il paese, ho trovato il centro pieno di avvisi sulla prevenzione del coronavirus, il gel disinfettante in ogni stanza e coi colleghi non si parlava d’altro. Poco prima della quarantena, iniziata il 16 marzo, gli stagisti del centro sono andati via e anche alcuni volontari hanno deciso di tornare a casa. Anch’io mi sono chiesta spesso se fosse il caso di tornare in Italia. Ero molto confusa e non è stato poi così facile prendere decisioni e cercare di restare lucida in una situazione così surreale, soprattutto all’inizio. Ho scelto di rimanere qui per evitare di spostarmi da una zona a rischio come quella in cui mi trovo e anche perché speravo che, prima o poi, il mio volontariato tornasse alla normalità. L’Alsazia è stata una tra le poche regioni rimaste più a lungo in rosso sulla cartina stilata dal governo, Mulhouse è stata uno dei focolai maggiori del virus ed è stata dichiarata zona a rischio sin dall’inizio, è stato allestito un ospedale militare e, per sopperire alla mancanza di posti letto in ospedale, la struttura dove lavoro ha messo a disposizione dei letti per i pazienti covid-19 che escono dalla rianimazione.
Mi ci è voluto un po’ per abituarmi a tutti questi cambiamenti, alle disposizioni del governo e soprattutto al modo in cui molte persone che mi circondavano affrontavano questa pandemia. Sentendo costantemente amici e parenti in Italia, dove le misure prese erano più severe, non riuscivo a capire perché, nonostante qui la situazione non fosse molto diversa, potessimo ancora uscire per fare jogging (anche se solo fino a 1 km dal proprio domicilio), nei supermercati non ci fosse l’obbligo di mettere mascherina e guanti e in giro fossero poche le persone con le mascherine.
Anche iniziare a lavorare coi bambini è stato abbastanza strano. Senza mascherine in un primo periodo e senza mantenere la distanza di un metro, mi sono sentita catapultata in un mondo parallelo, come se non ci fosse nessun virus. Tuttavia, per quanto mi preoccupasse non poter rispettare del tutto le misure di sicurezza, esser circondata da questi bambini che mi accolgono la mattina con un sorriso, vederli giocare e ridere, ha portato sicuramente un po’ di spensieratezza durante questo periodo.
Il coronavirus avrà anche stravolto il mio volontariato ma mi ha permesso di osservare la situazione da un’altra prospettiva, di sperimentare un nuovo ambiente e di capire determinate cose del paese in cui sto vivendo che forse non avrei potuto cogliere normalmente.